Uno degli aspetti più rilevanti dell’età giolittiana fu l’intensificazione dell’industrializzazione fra il 1896 e il 1914.
Il primo battistrada dell’industrializzazione fu il settore tessile, che nei primi anni del Novecento ricevette un forte impulso grazie a una politica doganale protezionistica e alla costruzione di grandi cotonifici in Lombardia, in Veneto e in Campania.
Il secondo fattore fu lo sviluppo della siderurgia.
Lo sviluppo dell’industria pesante e la nascita di due colossi dell’acciaio come l’Ansaldo e l’Ilva furono possibili grazie al sostegno dello stato, che intervenne sia con commesse governative, sia con un apolitica protezionistica, adottata fin dal 1887.
La diffusione dell’elettricità e la sua crescente applicazione al mondo dell’industria furono elementi di modernizzazione dell’apparato produttivo italiano.
Più difficoltoso, in questi anni, fu il cammino dell’industria automobilistica. Il settore infatti non beneficiò di politiche governative protezionistiche.
Il quadro tuttavia non sarebbe completo se non si accennasse al ruolo volto dal sistema bancario. Dopo una crisi del settore creditizio, intorno al 1890, questo fu radicalmente ristrutturato. Il vecchio credito immobilare fu sostituito dalla Banca commerciale italiana e dal Credito italiano, che non solo si ispiravano al modello tedesco della “banca mista“, ma si avvalevano anche di capitali e personale provenienti da alcuni istituti bancari della Germania.
Molto significativi furono anche alcuni cambiamenti nel tenore di vita della popolazione. Dopo 40 anni in cui il reddito pro capite era rimasto pressocchè invariato, nei primi 15 anni del secolo esso aumentò di quasi il 30%. Ciò consentì di destinare una quota dei bilanci familiari a beni di consumo non essenziali.
Eppure il benessere appena raggiunto non poteva nascondere sia le fragili basi del sistema sia i problemi irrisolti.
Il tasso di mortalità era ancora fra i più elevati in Europa, nel 1911-13 il reddito pro capite era poco più della metà di quello della Germania e circa 1/3 di quello della Gran Bretagna.
Una spiegazione di tale divario risiede in uno dei punti deboli dell’industrializzazione italiana: la sua dipedenza dalle commesse statali.
Il principale limite dello sviluppo economico, infatti, fu quello di rimanere circoscritto a un’area molto limitata del paese, il cosiddetto triangolo industriale (Torino-Milano-Genova) e di lasciare il sud in una condizione di grave arretratezza.
I progressi nel settore agricolo, a partire dagli ultimi anni dell’Ottocento, derivarono soprattutto dalle aziende capitalistiche della pianura padana e scarso fu il contributo dell’agricoltura meridionale, profondamente arretrata a causa della prevalenza dei latifondi.
Questa situazione provocò due conseguenze. La prima fu lo sviluppo, nel meridione, di un sistema politico clientelare.
La seconda fu l’esodo migratorio più massiccio di tutta la storia italiana. Tra il 1901 e il 1913 circa otto milioni di persone lasciarono l’Italia.
L’imponente fenomeno migratorio, messo in atto da gente povera e analfabeta, spinta dalla disoccupazione e dalla fame ebbe alcuni effetti economici positivi. Innanzitutto ridusse la pressione demografica nelle regioni dove vi era uno squilibrio tra risorse e popolazione, in secondo luogo, le “rimesse” degli emigranti, ossia il denaro inviato ai familiari rimasti in Italia, venivano spesso depositate in fondi di risparmio postali.