Ecco la seconda parte degli articoli di approfondimento, a cura di Riccardo Bernabei, sull’esodo Giuliano-Dalmata, se ancora non lo avete fatto, vi consiglio di andare a leggere la prima parte con grande attenzione, scoprirete fatti, molto probabilmente, completamente nuovi ma anche estremamente importanti, che hanno contribuito a lasciare un profondo solco nel nostro recente passato, con l’occasione auguro a voi lettori una buona lettura.
Esodo
Zara
All’interno dell’esodo giuliano-dalmata quello di Zara è un caso particolare. La città, infatti fu abbandonata dalla popolazione già durante la guerra. Venne colpita da 54 incursioni aeree da parte degli alleati fra il 2 novembre 1943 e il 31 ottobre 1944 che la misero in ginocchio. L’accanimento su questa città è difficilmente giustificabile per ragioni militari[1]. Durante la guerra si diffuse la voce, poi confermata, che il Movimento di liberazione jugoslavo abbia sollecitato la distruzione di Zara in quanto centro dell’italianità in Dalmazia. Questi bombardamenti uccisero circa 2.000 dei 22.000 abitanti[2].
In molti già avevano abbandonato la città quando i tedeschi ne ordinarono l’evacuazione il 24 maggio 1944 e un ulteriore flusso in uscita si ebbe dopo l’entrata delle truppe jugoslave in città nell’autunno del ’44.
La fratellanza Italo-slava
Dopo la Guerra la nuova Jugoslavia si ritrovò di fronte al problema delle due minoranze italiana e tedesca che vivevano nelle terre appena conquistate. Mentre i tedeschi vengono rapidamente espulsi diverso è la politica nei confronti degli italiani. Viene infatti varata la politica della “Fratellanza italo-slava” che prevedeva una serie di tutele per la comunità italiana.
La Jugoslavia aveva infatti la necessità di mantenere buoni rapporti con gli italiani affinché il loro appoggio all’annessione mettesse il governo di Tito in una posizione di forza al tavolo della pace. Inoltre erano presenti alcuni nuclei di operai italiani che potevano essere mobilitati per la costruzione del socialismo. In particolare operai erano presenti a Trieste e Monfalcone che ancora si sperava di poter strappare all’Italia. A poter beneficiare di questa politica però non sono tutti gli italiani. Innanzitutto erano considerati italiani non tutti quelli che avevano l’italiano come lingua d’uso ma solo gli italiani etnici. A determinare l’etnia erano la lingua materna e il cognome. Coloro che erano culturalmente italiani ma ritenuti etnicamente slavi andavano aiutati a ritornare alla propria etnia originaria per cui, ad esempio, non potevano iscrivere i propri figli a scuole italiane.
Una successiva distinzione era quella fra gli “Italiani onesti e buoni” e i “Nemici del popolo”. Si doveva necessariamente appartenere ad una di queste due categorie, senza vie di mezzo. Per essere nella prima categoria non era sufficiente essere antifascisti, ma bisognava da un lato aver partecipato alla resistenza o comunque militare per l’annessione alla Jugoslavia e la costruzione del socialismo, dall’altro impegnarsi per smascherare i nemici del popolo. I nemici non erano quindi solamente coloro che si opponevano al regime, ma anche coloro che semplicemente non lo sostenevano in maniera entusiastica.
Infine erano esclusi tutti gli italiani insediatisi dopo il 1918. Appare quindi evidente che a poter beneficiare delle tutele era una minima parte della popolazione italiana.
Il consenso al regime
Oltre al clima di terrore e alla difficoltà nel mantenere la propria cultura altri fattori contribuivano ad assottigliare il consenso italiano attorno al regime di Tito.
La maggior parte della piccola borghesia urbana giuliana a dalmata era composta da italiani. Commercianti e artigiani vennero duramente colpiti con confische sia delle merci che delle attività. I contadini erano invece colpiti dalle espropriazioni, dall’obbligo di portare i prodotti all’ammasso e infine dal lavoro coatto per costruire le ferrovie o nelle miniere.
Infine un’altra forte spinta all’esodo venne dal fattore religioso, vista la politica fortemente ostile alla religione portata avanti dai comunisti.
Le opzioni
Il trattato di pace prevedeva il diritto di opzione. La popolazione delle terre di confine poteva decidere se vivere in Italia o in Jugoslavia ottenendo la cittadinanza del paese scelto.
Nelle previsioni del governo Jugoslavo ad optare per l’Italia sarebbero stati solamente gli italiani etnici e i fascisti. Invece alla fine le domande di opzione furono di gran lunga superiori a quelle previste.
Le domande di opzione non vennero solamente dalle città, come poteva essere prevedibile, ma anche dai villaggi e dall’entroterra istriano la cui italianità era fermamente negata dagli jugoslavi.
A Pisino le domande di opzione superavano il 90%, a Montona e Pinguente raggiunsero il 99%[3] Ad optare per l’Italia furono anche molti non italiani.
Il regime decise di reagire alle opzioni da una parte respingendo molte richieste, magari anche quella solo di una persona per bloccare un intero nucleo familiare, e dall’altra con minacce e violenze nei confronti di coloro che facevano domanda.
La reazione se permetteva di rallentare nell’immediato il flusso delle domande aveva poi un effetto controproducente. Infatti le minacce aumentavano l’insofferenza verso il regime e incoraggiavano a cercare di fuggire il più rapidamente possibile.
Inizialmente il termine per esercitare il diritto di opzione venne fissato al 16 novembre 1948 e successivamente prorogato al 16 febbraio 1949. Infine un accordo fra i due governi interessati prorogò i termini fino al marzo 1951.
Nell’autunno 1951 fu calcolato dal Ministero degli Esteri che ad optare per la cittadinanza italiana erano stati circa in 200.000, mentre erano stati circa 650 i residenti nei territori conservati alla sovranità italiana ad optare per la cittadinanza jugoslava[4].
Pola
Un caso esemplare per quanto riguarda l’esodo fu quello di Pola. La notizia dell’assegnazione di Pola alla Jugoslavia il 14 maggio del 1946 fu abbastanza inattesa per i polesani che fino all’ultimo avevano sperato di far parte dell’Italia.
Nel frattempo si era acuito il contrasto fra la popolazione e gli occupanti jugoslavi. Il 3 luglio si costituì il “Comitato Esodo di Pola” che il 12 iniziò a raccogliere le domande di cittadinanza.
Il 28 luglio su 31.700 polesani a scegliere l’esilio erano stati in 28.058[5].
Si temeva che il trattato di pace sarebbe entrato in vigore subito dopo la sua firma, prevista per il 10 febbraio 1947 (alla fine fu deciso che il passaggio alla Jugoslavia sarebbe avvenuto a settembre) per cui si diede il via all’esodo a partire dal dicembre del 1947, quindi in pieno inverno.
L’arrivo di quasi 30.000 persone tutte insieme segnerà un momento di svolta nelle politiche di accoglienza sensibilizzando notevolmente l’opinione pubblica sul tema e spronando il governo ad adottare politiche specifiche.
Il controesodo
Una storia particolare è rappresentata dai comunisti italiani che si trasferirono a in Jugoslavia, soprattutto a Fiume. Ad emigrare furono innanzitutto circa 2.000-2.500 operai provenienti da Monfalcone, ma oltre a loro passarono il confine intellettuali, artisti, giornalisti, attori e insegnanti da ogni parte d’Italia[6]. Si formò quindi a Fiume una nuova piccola comunità italiana. Il punto di svolta nella loro storia fu l’espulsione del partito Jugoslavo dal Cominform, nel giugno 1948. I comunisti italiani erano per la stragrande maggioranza fedeli a Mosca e iniziarono ad organizzare riunioni filosovietiche. Il culmine della tensione si ebbe quando venne organizzata una riunione per spiegare le ragioni di Tito agli italiani; i fischi dei monfalconesi interrompevano spesso i relatori, e alla fine il loro leader, Ferdinando Marega intonò l’”Internazionale”, tutti i presenti si unirono al canto, la riunione venne interrotta e gli operai sfilarono in corteo per le vie cittadine[7]. Il governo reagì duramente e una quarantina di operai furono deportati a Goli Otok. Per gli altri invece non rimase altra alternativa che ritornare in Italia dove faticarono a reinserirsi e molti dovettero emigrare nuovamente nei paesi dell’Europa Settentrionale.
[1] Elizabeth Barker, L’opzione itriana: obiettivi politici e militari della Gran Bretagna in Adriatico (1943-1944), in “Qualestoria”, X (1992), n.1, pp. 3-44
[2] Oddone Talpo, Dalmazia. Una cronaca per la storia (1943-1944), Stato Maggiore dell’esercito, Ufficio Storico, Roma 1994, vol III, pp. 1360-1492
[3] I dati sulle opzioni sono quelli riportati nell’opuscolo Il problema delle opzioni nei territori assegnati alla Jugoslavia, a cura dell’ufficio stampa del CLN dell’Istria, La Editoriale Libraria, Trieste; essi non sono stati verificati mediante il riscontro con i materiali d’archivio italiani e croati sulle opzioni.
[4] Nota di Gastone Belcredi della Direzione Generale per gli affari politici (DGAP), a Fausto Bacchetti, vice console italiano a Londra, del 9 aprile 1952, con annesso appunto riepilogativo della DGAP, ufficio IV, per la segreteria generale del ministero, di data 4 settembre 1951, Comitato di liberazione nazionale dell’Istria, Il problema delle opzioni, b.611, f.82/1
[5] Dati pubblicati su L’arena di Pola,
[6] Giacomo Scotti, Goli Otok. Ritorno all’isola Calva, Lint, Trieste, 1991
[7] Ivi, p. 13; Andrea Berrini, Noi siamo la classe operaia. I duemila di Monfalcone, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2004 p. 119